OGGI A “ UN GIORNO . . . UNA PAGINA” DONATELLA MOICA CON IL SUO ROMANZO “LA FORMA DELLA NEVE”
pubblicato sabato 14 settembre 2019 alle ore 09:11:56
Presentazione
Ogni giorno guardo persone che si muovono veloci, parlano senza riflettere, ridono e piangono senza riflettere, pensano senza riflettere. Manca il tempo per la riflessione. Si agisce senza preoccuparsi di ferire, si parla senza scegliere le parole. Il mondo va troppo veloce e ogni istante vuoto e riempito dai social, da un telefono blindato con password, riconoscimenti vocali o della retina quasi contenesse la nostra anima e non solo i nostri segreti. Tutto cambia forma continuamente e ci si chiede quale sia la sostanza. Il lavoro è fluido e senza radici, le esigenze anche, i rapporti instabili, le relazioni nascono sui social e finiscono su whatsapp. E dio? si è perso nei vicoli di questa nostra era, così lo cerchiamo disperatamente, ovunque. Una qualche religione proveniente da chissà dove, una filosofia, una credenza, un mago o una santa possono diventare maestri-guida in un attimo per poi essere, spesso, digeriti e sostituiti altrettanto velocemente. Tutto scorre rapidamente senza lasciare traccia, che si tratti di un mobile dell’Ikea o di un amore, sembra non restare nulla di nulla. L’unica costante sembra essere questa ricerca della perfezione, una ricerca ossessiva: facce tutte uguali, corpi perfetti a qualunque età, vestiti omologati, espressioni comuni. Impera davvero l’effimero? Ne siamo tutti vittime o carnefici? E cosa significa effimero? Questo interrogativo mi ha turbato per un bel po’ di tempo. Mi sono chiesta se tutto quello che “sembra” sia veramente così. Per farlo ho parlato con amici, psicologi e antropologi, ho studiato le filosofie orientali e ho viaggiato alla ricerca di spiegazioni. Ho capito che le cose non sono come le vediamo attraverso gli specchi deformanti delle nostre percezioni, ma c’è altro nascosto sotto la patina di make-up. Sotto quell’aspetto luccicante e rilassato ci sono dei grandi vuoti, voragini di paure e abbiamo ancora, tutti, bisogno d’amore. Abbiamo bisogno di cose che restino. Abbiamo bisogno di lasciare tracce di noi. Abbiamo bisogno della cura, di avere le cure di qualcuno che ci ama e di prenderci cura di qualcuno che amiamo, siano pure delle tombe. Abbiamo bisogno di mantenere un collegamento con la nostra storia e con i luoghi e le persone da cui proveniamo. Abbiamo bisogno, ancora, di capire chi siamo e dove andiamo. Abbiamo bisogno di confrontarci con la morte e con la paura di ciò che non comprendiamo. Abbiamo bisogno di sentirci parte di un Tutto che unisca armonicamente le imperfezioni che ci rendono unici.
E’ nata così la storia di Virginia. Una donna di quasi quarant’anni perfettamente integrata in questa epoca. Fa la psicologa e attraverso la parola e l’ascolto cerca di aiutare gli altri. E’ intelligente, ha fatto master, ha viaggiato, è bella nella norma, ha successo nella norma. Non è niente di che. E’ una di noi. Ha tutte le fragilità di donne come noi, eppure è anche molto forte, capace di lasciare tutto per iniziare una nuova vita e costruire una famiglia. E quando le cose vanno male, soffre ma si fa forza, si affida, ancora una volta, a quella resilienza capace di far rinascere e diventare più forti. Virginia compie un viaggio verso il centro di sé. Si denuda davanti al lettore, gli mette in mano la sua anima. Tutte le sue insicurezze, le sue debolezze e i suoi sogni sono alla mercé del lettore che, se vuole andare avanti con la lettura, deve interrogarsi a sua volta, chiedersi cosa conta davvero, cosa resta, cosa lasciamo di noi dopo… dopo che ce ne saremo andati.
Mentre scrivevo La forma della neve mi facevo domande sul significato di effimero, leggevo gli haiku, scoprivo la cultura e i simboli giapponesi e li confrontavo con i nostri. Lo scorrere del tempo è l’unità di misura dell’effimero. Il tempo che ai nostri occhi è visto come una perdita di sé, un cambiamento doloroso e faticoso si contrappone all’idea giapponese dell’effimero positivo, di uno scorrere del tempo affermativo e fluido che integra e accetta le trasformazioni ritualizzandole. Gli haiku celebrano l’effimero, l’impermanenza e l’imperfezione delle cose. Non è bello ciò che è perfetto ma ciò che fa dell’imperfezione la sua bellezza. Mi sono affezionata al simbolismo giapponese della neve che rappresenta la morte, intesa come trasformazione da una cosa in un’altra. La neve è simbolo di passaggio, di metamorfosi. Per rinascere, come i fiori di ciliegio in primavera bellissimi e puri, occorre accettare che qualcosa debba morire. Si accetta di perdere una parte per costruire qualcosa di nuovo, nella vita come nel romanzo.
Donatella Moica
LA PAGINE
– pag. 9
Un anno fa. Trentanove anni e mai sposata. Niente figli. Mai preso un impegno serio con nessuno, a parte con i miei pazienti. Mai avuto nemmeno un gatto. Decidere di venir via non era stato poi così difficile. Avevo salutato i pazienti. Li avevo trasferiti a colleghi in gamba e di cui mi fidavo. Avevo spedito tutti i vestiti e i pochi mobili decenti, per esempio quella poltrona bianca e la scrivania su cui rielaboravo i miei appunti la sera. Il divano no e nemmeno il letto. Li avevo comprati da Ikea quando ero andata a vivere da sola, oltre un decennio prima, e ormai avevano superato la soglia di decenza. E poi se cominci una vita nuova la devi cominciare per davvero. Non puoi mica portarti dietro tutte quelle consolazioni materiali, sarebbe troppo facile, troppo comodo. O vai o resti, niente mezze misure. Basta con le cose iniziate e mai finite. Basta con quei viaggi di esplorazione per trovare un luogo dove “ti ci senti” e poi non ti ci sentivi, comunque, mai. Quanti aeroporti avevo visto nella mia vita… Quanti passaggi di controllo, quante carte d’imbarco, quante persone appena sfiorate e mai veramente incontrate… Quante volte mi sono chiesta se sono mai arrivata da qualche parte per davvero… Anche solo una volta sarà successo? Forse non me ne sono accorta, forse avevo sorvolato il posto “giusto” solo per un attimo, senza saperlo, e così l’avevo perso.
– pag. 13/14
Sono cresciuta lì, in quella piccola città di provincia un po’ sonnacchiosa, dove la vita sembrava andare sempre a rilento. Dove persino le auto andavano piano, tanto prima o dopo, era sempre tutto uguale. Una città dalle forme morbide e dagli angoli smussati. Senza palazzi alti e nessuna strada veramente dritta. A guardarla dall’alto sembrava un insieme di otto che si concatenavano intorno al suo cuore, la piazza. Ogni strada era bordata di alberi e alberelli e non c’erano semafori, ma un complicato reticolo di rotonde che si aprivano a raggiera dando l’impressione che ci fossero infinite possibilità e alternative. C’erano, ancora oggi, una miriade di negozi cittadini di varie dimensioni, con clienti affezionati, divisi per ideologia e classe sociale, accalcati nel centro da far credere tutto per tutti. Eppure ciascuno sapeva esattamente dove poteva permettersi di entrare e non sbagliava mai. Il tessuto urbano si confondeva con quello umano in un equilibrio che sembrava persistere da tempo immemore. Tutti credevano di sapere tutto di tutti. Il primo giorno di scuola non ti veniva chiesto il nome, marcato comunque sul registro, ma di chi eri figlio, nipote, parente. E se te li volevi dimenticare, quei parenti, potevi anche scordarti di farlo. Ti rimanevano appiccicati addosso come un tatuaggio, il cui disegno non avevi scelto. Grandi sorrisi e strette di mano quando ci si incontrava. Si chiedevano notizie, non solo di quelli della famiglia, ma anche del vicinato e della strada. La questione dei figli, però, era la più fastidiosa. «Sai che la tale è incinta? Ma non andava alle elementari con te?», come se l’essere state compagne di scuola obbligasse anche a far figli contemporaneamente. Poi c’era quella ancora più terribile: «Ma quando renderai finalmente felice tua mamma con un nipotino?». Per questa avevo selezionato la risposta che ritenevo la migliore tra le varie che avevo usato negli anni: «Non lo vorrebbe. Ora che non deve più lavorare, ha voglia di viaggiare». Non so se lei la pensasse davvero così. Non mi aveva mai parlato del desiderio di un nipote. Era quella una delle tante parole tabù del nostro rapporto madre-figlia. Certo, alcune domande si dovrebbero vietare, anzi, multare. Alt, paletta rossa, hai usato la parola figlio con una donna adulta che non ha figli, cinquanta euro di multa. Sai quante vacanze mi sarei fatta? Poi c’era anche la curiosità sull’ultimo fidanzato: «Ma come mai è finita anche con questo?» che ti faceva sempre sentire una stronza ad avere chiuso, anche se quello era più stronzo di te. Potevi anche essere una donna di successo, bella e intelligente, se non avevi un uomo dovevi avere qualcosa di strano. E se a te sembrava che andasse tutto bene, a furia di sentirti chiedere «ma hai qualcuno, finalmente?» ti convincevi che qualcosa di sbagliato a star sola ci doveva essere per forza.
– pag. 113
Tu non sai quante volte mi chiedo dove va la mia vita. So che è la domanda che si fanno tutti a cadenza più o meno regolare che tende ad aumentare con gli anni. Lo sperimento tutti i giorni con i miei pazienti. E lo vivo sulla mia stessa pelle. Il disagio dell’incertezza, a volte, è talmente pressante che mi toglie il fiato. Sento che non so più chi sono e allora mi chiedo se l’ho mai saputo. Quell’equilibrio che avevo così faticosamente costruito si è incrinato ancora una volta. Dentro di me c’è una faglia nascosta nel sottosuolo dell’anima e appena si è accumulata sufficiente energia questa esplode lasciando scoperta la parte più profonda, quella più fragile. Tutta la corazza costruita faticosamente negli anni non c’è più. Non è questione di rinnegare il passato, le scelte fatte, gli errori commessi. Non si tratta di quello. È una strana nostalgia che non ha un vero oggetto, ha solo un soggetto e quel soggetto sono io. Non mi manca niente davvero, mi manco io. Mi mancano tutte quelle volte in cui avevo energia per spaccare il mondo, tutte quelle volte che progettavo il futuro, tutte quelle volte che dicevo «domani, lo farò domani». È il tempo che passa. Non c’è nulla di sbagliato nel tempo che passa. Non potrei proprio pensare a un tempo immobile, a un giorno che dura per sempre, a qualcosa che non finisce mai. Eppure… eppure ho paura.
Minibiografia Donatella Moica
Curiosa del mondo per natura, comincio a viaggiare a quindici anni.
Per mantenermi all’università devo lavorare e, con la conoscenza delle lingue, è quasi automatico cercare lavoro nel turismo. Ho 21 anni quando vengo assunta per la prima volta come responsabile ricevimento in un villaggio turistico a Borca di Cadore. Mi piace, mi appassiona, diventa in fretta una dipendenza. D’inverno studio e d’estate lavoro con i turisti. A 24 anni parto per le Maldive. Anche qui per lavorare nel turismo naturalistico subacqueo. Nel frattempo, ero diventata istruttrice subacquea. Sono anni di avventura, esperienza, fatica. Anni di confronto con una cultura molto diversa, quella islamica, ma anche altre culture, quelle dei turisti. Mi sposo, faccio una figlia, mi separo.
Da sempre scrivo. La scrittura è stata la mia compagna di viaggio e di vita. Il percorso, che a volte ho scelto altre volte mi è toccato, l’ho condiviso con la scrittura. La narrazione per lavoro è parte integrante delle mie scelte aziendali, la narrazione personale è parte integrante dei miei romanzi. Ho pubblicato moltissimi articoli tematici, due saggi sul mare e dal 2016 ho trovato il coraggio di pubblicare anche storie che riguardano l’animo umano.
Pubblicazioni
Romanzo:
Seconda navigazione
Edizioni della Meridiana 2016
Romanzo:
La forma della neve
Capire/Carta Canta Edizioni 2018
Saggio:
Meraviglie dei Tropici
Gribaudo 2006
Saggio:
Appunti per il naturalista subacqueo
Memory 2004
Numerosi articoli e reportage di viaggio su riviste specializzate cartacee e online
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